Eridano, il Po | «Perché mi sento qualche cosa»: due parole su Antonio Ligabue
Volare come un tacchino per dipingere un tacchino, ruggire come una tigre per dipingere una tigre.
ERIDANO, IL PO è una newsletter a cura di Piergiorgio Caserini, Luca Boffi e Camilla Romeo.
Eridano è uno dei nomi del fiume Po. Ci è stato detto da un navigante, uno spirito tutelare di queste acque. ERIDANO, IL PO è il titolo del progetto artistico con cui esploreremo le Basse e le sponde tra Pavia, Piacenza, Sorbolo e Mantova, lungo il Po per un anno intero.
In queste newsletters leggerete delle ricerche e dei metodi che accompagneranno questo viaggio, e inevitabilmente troverete le storie dei luoghi, personaggi reali e verosimili, racconti popolari, feste e fisime che accompagnano queste terre.
Tratto da Pioppo Ciao film di Luca Boffi e Francesco Tosini, 2022, 34’00’’
Tutta l'area della bassa reggiana e della bassa mantovana fu un brulichio di pittori naïve. Il primo e più celebre fra tutti fu Antonio Ligabue, del quale s'è parlato tanto, detto tanto, scritto tantissimo, tanto che in piazza a Gualtieri trovate un enorme busto del Pittore rivolto torvo a Palazzo Bentivoglio.
Cesare Zavattini scrisse una bellissima biografia in versi, scritta e pubblicata a due anni dalla morte dell’Antonio. Qui lo scrittore luzzarese, che aveva pure indetto un premio per i pittori naïve di zona, rigorosamente consegnato alla festa di Capodanno, ammetteva con la consueta nonchalance d’essere incerto se Ligabue fosse pittore naïve o qualcos’altro, forse adoperando quel metro di giudizio che preferisce valutare un’attitudine, e considerare allora quelle pertinenze che annodano un fare a un vivere e dunque fanno una storia, un carattere e una persona, e da lì stimare uno stile.
«Anche gli intellettuali si domandano: valeva storicamente? / Cara Marisa / d’accordo che coi naïfs (se Ligabue lo era) / non si svolge il discorso della pittura / però credi / che con gli altri pittori / (sono loro o il palo telegrafico che va?) / ci si avvicini di più / a? (scegli tu la parola / ne abbiamo sempre più / a disposizione ma / sulle orme di questo / povero uomo diffidente / io mi fido / solo dell’azione diretta).»
Per certi aspetti Ligabue naïve c’è capitato, suo malgrado, nascendo a cavallo di un’epoca. Me son un pitur è quanto basta. Poco importa insomma del dilemma stilistico di Ligabue, se quel tratto sia naïve perché amatoriale e istintivo, antiaccademico e dunque slegato da stilemi (come fu per il primo che si ritrovò l’epiteto di ingenuo, naïf: Henry Rousseau “il Doganiere”), se si faccia o meno il discorso della pittura, quale che sia. Importa piuttosto quella “fiducia nell’azione diretta” che sottolinea lo Za, vale a dire, ci sembra, la forza con cui s’afferma un mondo.
Due cose ricordano tutti del Pittore di Gualtieri: la prima è che l’èra màt, etichetta che lo lega a tutta una sottotraccia della storia dell’arte; la seconda è il fascino sfrenato per gli animali. Cosicché il pittore-matto, ingenuo, è un essere che strilla, con voce roca e spezzata, tendendo la gola al cielo per mimare merli e tacchini.
L’azione diretta: una tecnica di pittura che stravolge la logica dell’occhio coinvolgendo convulsamente tutto il corpo. Bisogna divenir merli e tacchini per saperli dipingere, essere ben disposti a diventare una bestia. Così il Pittore ululava per i lupi, ruggiva per i leoni, strillava per le aquile, soffermandosi anche ad accertarsi che il naso fosse adunco il giusto. La pennellata è feroce, decisa: se la linea non fosse stata giusta, se il tacchino non avesse avuto una linea-tacchino, la potenza non sarebbe stata evocata appropriatamente. Sarebbe stata meno viva.
Cosicché pare quasi incestuoso il dipingere di Ligabue. Presuppone una comunanza, una continua oscillazione che sposta l’uomo nell’animale e viceversa. Muta la voce, cambiano le movenze, cambia il naso e il labbro. S’acconcia, il Pittore: serve a sentire meglio ciò che s’appresta a dipingere, e allora a somigliarci. Una simile trasformazione è necessaria, e lo san ben tutti: che si scriva, che si dipinga, performi o anche si pensi, c’è sempre qualcosa da imitare, qualcuno o qualcosa a cui si tende. Occorre diventare quel che si cerca per saperlo trovare, come a dire che ogni pensiero è buono soltanto se tocca terra, se non cede all’astrazione. Da questo punto di vista possiamo allora dirci che Cezanne non era altro che una montagna, il suo Sainte-Victoire, sempre appostato e immobile sulla collina che oggi è il Terrain des Peintres, ad Aix-en-Provence, e che Ligabue fu ogni animale che incontrò un suo umore, che fosse in golena, al circo o al cinema.
Viene in mente quello che diceva Celati su Henry Michaux, riferendosi a quelle pulsioni che configuravano una specie di “scrittura a perdere”, senza finalità, tutta-sentire, un “incontinenza di gesti e parole”: «Le pulsioni non stanno chiuse nell’uomo, come in un serbatoio. Esistono solo in quanto lo portano fuori di sé, e possono manifestarsi anche nelle appendici o nei margini dei corpi, come nei voli immaginatavi». Dall’altra parte, e un po’ di decenni prima, il diretto interessato Michaux annota: «Tutti gli spettacoli della natura sono spettacoli a eco, altrimenti le immagini sarebbero soltanto dei passatempi per accalappiare i gonzi». È così che si impara a sapersi capienti: riconoscendosi coinvolti e sapendo allora che l’interiorità è tutta una questione di lontananza.
La pittura ha in comune con ogni altro mezzo espressivo la facoltà di far vivere molte vite. Di far anche cambiar forme, in successioni rapide e fluide, senza contraddizioni. Se fosse davvero così, e non abbiamo ragione di negarlo, esser coerenti sarebbe allora controproducente: non è la raffinatezza della regola che conta, ma l’approssimazione a un immagine-guida, l’aggiustamento d’una sensazione, l’esercizio che porta fuori da sé pur restando sé stessi.
Per capir meglio questi umori, questa facoltà mimetica, c’è una scena emblematica nel documentario della Rai su Ligabue del 1962, tre anni prima che morisse. Lo si vede assumere le fattezze di una donna, in una vestizione tanto delicata e meticolosa che pare sacramentaria, anche nelle movenze. Indossa vesti pulite e bianche, orlate d’azzurro, quasi trasparenti. Dietro si intravede l’ennesimo ritratto in lavorazione: il cielo ha lo stesso colore degli orli che gli cadono sulle spalle rachitiche. Alla richiesta di spiegare, per l’appunto, le ragioni di quel trasvestirsi – tirannia della ragione e della pietà – il Pittore risponde scanzonato: «Perché mi sento qualche cosa, come se fossi assieme alla donna. Mi sento felice. Sento qualche cosa che mi fa bene». Tonalità: prima delle sensazioni da riporre e riportare, primo movimento per intonarsi e allora diventare plausibilmente qualche cos’altro.
Non ci importano i fatti. La pazzia, le richieste d’amore, le idee fisse o maniacali. Tantomeno ci interessano le ragioni, che ognuno ha le sue. L’avevamo già sostenuto, per parte nostra, parlandovi della Matàna de’ Po – di cui Ligabue è certo un poderoso esponente. Ci importa piuttosto la convinzione che sottende quest’esperienza: che il Pittore diventa merlo per dipingere merlo, diventa tigre per dipingere tigre. Ed è un dipingere da tigre, non dipingere la tigre. Ruggire, dunque, mutare la postura degli occhi perché quello sguardo sia tigre, perché la bocca si sberli in fauci, perché la mano che regge il pennello si scopra conoscere la sensazione della tigre nel suo manto. Ligabue s’abbandona alla finzione, oscilla tra mondi, cavalca un vero cavallo su un bastone di legno. Per questo è un bravo pittore: sa imitare, vale a dire essere verosimilmente altro da sé – e si dice che essere artista fosse l’unica cosa di cui fosse certo.
L’elaborazione di Ligabue ci ricorda in questo senso quella più antica, immemore, del cacciatore: occorre conoscere la propria preda, imitarla, saper pensare come pensa e infine metamorfosarsi in lei, per poterla braccare. Occorre insomma divenire quel che si cerca. Aveva ragione Roberto Calasso:
«Nulla di meno era implicito nelle pratiche arcaiche della metamorfosi, che si manifestavano come irruzione in un altro essere: per curiosità, per ammirazione, per erotismo, per invidia, per autodifesa, per aggressività. I motivi potevano essere molteplici, il procedimento era costante: l’assimilazione. Qualcosa nell’altro essere veniva fatto risuonare con qualcosa di sé stessi. L’imitazione presupponeva l’ubiquità della mente. Chi tentava di entrare in un altro essere da un altro essere poteva trovarsi invaso. Fondamento di ogni metamorfosi era la possessione».
Una volta il Gualtierese sostenne che «Le bestie sono meglio degli uomini». Zavattini, nella biografia in versi dedicata a Ligabue, scrive che «Forse gli animali vedono le cose quali sono, per questo tentava di trasformarsi in loro». Un fatto di nota, che lo Za riporta subito dopo: gli occhi di ogni animale ritratto sono gli stessi del Pittore, che sempre da lì incominciava, dallo sguardo, che è sempre lo stesso in ogni soggetto. Testimonianza diretta di chi sa farsi possedere, di chi sa trasformarsi, di chi sa che la parola io è un trucco da ciarlatani.
Ecco il rischio: là dove s'inoltrava il Pittore esiste la possibilità concreta di non poter più tornare indietro. Ed è a questo che serviva forse quello specchio tenuto legato al collo durante la metamorfosi in merlo nella golena, nel quale si guardava sveltamente e di continuo: per approssimarsi al merlo, tanto da esserlo, ma tenendo ben salda la capacità di sottrarsi. Nello strillo Ligabue è merlo, nello specchio il Ligabue è sé stesso. Riflettersi per sapere come tornare indietro: a chi si vede spetta come sempre la condanna di ricordarsi chi si è. Ma non siamo mica certi che il Pittore ce l'abbia mai fatta. Si vede bene dalle mocche a cui sforza il viso la convinzione dell'essere-merlo, del pensare e parlare-merlo. Sa di esserlo. Così com’è evidente il terribile contrarsi del grugno quando non è possibile essere ciò che vorrebbe. Succede quando cerca nell’azzurro quella “sua” donna. Il corpo di Ligabue s'accartoccia, il viso si stringe in un lamento. Ma può essere che non sia delusione: è piuttosto lo sforzo che occorre per approssimarsi alla rappresentazione. Allora la voce s'intona, le mani si carezzano i capelli per sistemarli, il naso s’avvicina alla tela: anche un odore deve nascere nel quadro. Tutto dev'esservi riposto.
La rappresentazione è viva, la regola è che lo deve essere. Vien da pensare che sia per questo che ritenesse inguardabile la morte, e considerasse parimenti inascoltabili e minacciosi tutti gli starnuti e i colpi di tosse. Vicino alla morte ci vuole sempre qualcosa di vivo. Ci dissero poco tempo fa che, ad Andrea Mozzali, un pittore naïve di Guastalla, il nostro ingiuriò così: «Non sei un pittore te. Te fai le tombe dei morti». C’è qui un’assioma semplice: dei morti non si può più fare niente, e l’unico fatto accettabile è che il pittore fa cose vive. Tant’è che, a conferma di ciò, si dice che i colori stesi da Ligabue fossero spesso mescolati a sperma e piscio. Ligabue è in tutto e per tutto nel suo dipingere. Una pittura che è obbligatoriamente viva perché nulla di morto possa sussistere.
Piergiorgio
UN DOVE
Una volta ho sognato di essere un pioppo perché stavo su in alto nel cielo
avevo la chioma verde rotonda
avevo i piedi che erano delle radici
i tronchi insieme ballavamo insieme ballavamo tutto il dì
e un due tre pioppi tutti insieme alè
E quando arriva la notte
noi pioppi siamo pioppati
tutti che pioppiamo la pioppa
e la pioppa che ci fa pioppar
e la pioppa che ci fa pioppar
quando pioppiamo pioppiemo pioppato pioppo tutto pioppo po
E i pioppi
l’erba le foglie
il sole le luci
la neve
tutto insieme in un anno
in due anni nel tempo che non c’è ma lo spazio qual è
quando penso a te
non so cosa penso
non so come sto
pioppo di nuovo
pioppo oramai
pioppo per sempre