Eridano, il Po | la storia della Matàna
Da sempre in pianura vagola una certa dissennatezza, una piccola follia privata e allegra che ha tanti nomi quante sono le sue Basse: uno di questi è "la Matàna de' Po".
Questo è il secondo numero di ERIDANO, IL PO: una newsletter a cura di Piergiorgio Caserini, Luca Boffi e Camilla Romeo.
Eridano è uno dei nomi del fiume Po. Ci è stato detto da un navigante, uno spirito tutelare di queste acque. ERIDANO, IL PO è il titolo del progetto artistico con cui esploreremo le Basse e le sponde tra Pavia, Piacenza, Sorbolo e Mantova, lungo il Po per un anno intero.
In queste newsletters leggerete delle ricerche e dei metodi che accompagneranno questo viaggio, e inevitabilmente troverete le storie dei luoghi, personaggi reali e verosimili, racconti popolari, feste e fisime che accompagnano queste terre.
Adda matàna, un video di Luca del 23 dicembre 2023
C’è come una febbre leggera che assale chi frequenta le sponde Po. Un malessere insidioso e cronico, che non si sa bene da che parte cominci. Chi ci vive la conosce bene, sa di quel fondo di amarezza che convive con una confusa allegria: basta restarci una volta per essere febbricitanti per sempre. I suoi sintomi son visioni, sono sogni a occhi aperti, sono le fisime su cui s’incistano le storie, per cui poi, febbricitanti di una qualche nuova convinzione, s’inventano doveri e valori.
Qualche esempio.
Una volta un signore di un paese nella Bassa Lodigiana mi disse, tutto convinto, che gli aironi nelle garzaie conoscessero il segreto delle luci. Non mi disse che cosa fosse, soltanto che l’aveva origliato. Un altro raccontava di aver preso un drago nell’Adda, e mi suggerì di andare a vedere una costola di un metro e mezzo conservata in una sacrestia: «Una volta erano così, eh. Ora son più piccoli e si muovono a banchi, come la nebbia». Un altro, per l’appunto, ammoniva chiunque sostasse troppo con i piedi nella nebbia, «Attenzione», diceva «che se ti vede la Borda ti s’affianca e t’accompagna a perderti, e poi non ti si vede mai più, nemmeno quando la nebbia si dirada». Così è questa febbre: rende creduli.
Verrebbe dunque da pensare ad Antonio Ligabue, che nelle larghe golene di Gualtieri faceva il chiocco del merlo e subito alzava lo specchio legato al collo, per capire quanto davvero gli fosse venuto a somigliare. Così, alle volte, diventava un Merlo Antonio. Viene da pensare anche all’Alberto, il Re del Po, che ha costruito ininterrottamente, per quindici anni, la sua nave Jolanda. Un relitto di legni e tronchi consegnatigli dalla corrente, fatto di ponti, altalene e traversine, edificato sullo spiaggione ad attendere la Grande Alluvione per poi prendere il largo. Questa non arrivò mai, e così la Jolanda è crollata più volte, diventando parco per bambini, monumento e rovina, restando pur sempre un motore di questo mondo. Arriverà, la Grande Alluvione. Per questo l’Alberto regalava chiodi.
Assieme a queste storie di vita, c’è poi la letteratura, i cui toni intrecciano queste vite: c’è il Menotti tintore di insegne, una delle Quattro novelle sulle apparenze di Gianni Celati, che vedeva scoppiare la luce all'orizzonte – come se il particolato pesante gli fosse entrato negli occhi; ci sono il Savini e il Prefetto Gonnella, protagonisti del Poema dei Lunatici di Ermanno Cavazzoni, che sentono le voci nei pozzi e si convincono che tutto quel che c’è nella Pianura Padana è una grande scenografia, un’impalcatura da cui non si può sfuggire perché tutti sono attori straordinari: uomini, donne, bambini, cani e anche neonati.
Certo c’è tutto un tema fantastico che percorre la letteratura locale, soprattutto di quegli anni, ma la vita in pianura ha spesso questi esiti tragicomici. Potete prendere per vero o derubricare a falso, poco importa. Il punto è cosa accade a crederci, e il fatto che questa “febbre” si spande come l’acqua su tutto l’orizzonte di pianura.
«Tradizionalmente si parlava di varie forme di “pazzia locale”, c’era la famosa pazzia di Reggio Emilia, la melanconia cupa dei ferraresi, la pazzia ombrosa dei romagnoli. Qui la parola “pazzia” era intesa come stravaganza individuale, ed era quasi una forma di vanto in certi posti. Ad esempio dalle parti di Cremona si parlava della matàna degli uomini del Po, e questo genere di pazzia significava un’indipendenza irriducibile, indicava una persona non assoggettata alle regole sociali convenute».1
Celati racconta di come i vecchi contemplatori sulle rive del Po avessero ben presente la follia in cui s’incappa dando troppo retta all’acqua, o semplicemente standole vicino. A detta sua, è questo lo scaturimento della postura fantastica di queste parti, della matàna: il Po. D’altronde il grande fiume è l’unica entità che qui non sottostà alle regole, e allora alle griglie, ai quadrati, all’eredità cartesiana dell’ordine produttivo. Ci sembra tutto vero. Ma ci pare anche verosimile che quel litorale fantastico stia anche, perlomeno, in altre due suggestioni. Da un lato c’è quell’orizzonte che chiama a sognare oltre un limite, che lascia intendere e a intravedere, e dunque a immaginare. Ecco una dissennatezza: si vede troppo, e si ha dunque sempre l’impressione di vedere un tutto al posto di un qualcosa. Dall’altro lato c’è invece l’esitazione che riguarda tutta la pianura, quel suo dondolarsi tra l’acqua e il suolo, tra il veder tutto e il veder niente, quel suo cambiare tutto d’un tratto, da un giorno all’altro e scombinare ogni certezza, cosicché la realtà qui finisca per esitare in tutti i cantoni, agli angoli di ogni campo, sull’orlo di ogni argine – e l’esitazione è l’anticamera della dissennatezza.
Un’altra ipotesi in merito ce la dà un cremonese, Danilo Montaldi: scrittore e militante che nel 1959 firmò la sceneggiatura assieme a Giuseppe Bartolucci di un film documentario intitolato proprio La Matana de’ Po.
«A cavallo del 45° parallelo, da una riva ad un'altra spiaggia, da una stagione a questi boschi, tra la piena e la secca, continuano ad essere costumi pagani: senza illusioni. I pioppi, il Po, i deserti: dove sono i limiti tra la fantasia e la realtà? Gli uomini del Po vivono nelle baracche, sono gli abitatori di una zona franca, di una idea di città che il bisogno ha però costantemente mantenuto nell'incompiuto. Può essere su una lama di sabbia, su un'isola o sotto le piante. Essi vivono qui, e le notizie dal mondo arrivano con i giri dell'acqua. […] Il loro profondo attaccamento ai luoghi del Po si esprime attraverso la matàna: avere la matàna de Po significa essere presi dalla passione per un ambiente che continua a rimanere situato tra la fantasia e la realtà».2
Ecco. Una passione, una visione che tracima come trabocca l’acqua. Una zona franca, una terra che è un po’ di qui e un po’ di là. Un po’ suolo un po’ acqua, un po’ storia un po’ invenzione. La matàna è una visione che, come accade per i miraggi nei deserti, porta la realtà in uno stato allucinatorio, per cui ci convinciamo di vedere una cosa al posto di un’altra. A volte un tutto, a volte qualcosa – febbre alta, febbre bassa. Così il fiume diventa biscia, il campo l'orma di un gigante, il paese una scenografia, la luce una condanna, il pioppo un amico e il motorino il destriero Bucefalo, e nessuno, per abitudine e amicizia, mai contraddice ogni piccola o grande espressione della matàna, e perché probabilmente troppi, se non tutti, ne sono affetti – una qualsiasità, dunque di tutti e di nessuno –, e tutti ne riconoscono dunque la necessità. Tra l’ordinato e l’ordinario, la matàna riacciuffa sogni e visioni e li scaglia contro quel cattivo scherzo della storia per cui l’orizzonte sembra sempre uguale a sé stesso, e canta le paturnie del medesimo – il nostro magone, quella sempiterna malinconia che vivacchia in tutti da queste parti – e dei fatti che, tiranni e assodati, non fanno altro che ripetersi come l’ordine di ascisse e ordinate che ingabbia tutta questa terra.
Qualcosa è sempre insomma sull’orlo di accadere e di disfare l’ordine atarassico della pianura, cosicché tutto pare sempre un avvenimento plausibile, perché tutto è nell’ordine dell’incertezza. Non tutti hanno magari ragione, ma tutti hanno le loro ragioni. Così che ci sarebbe in fondo ben poco da dire – che è una delle rivelazioni che al termine de Il poema dei lunatici lasciano tramortito il Savini – se non che “è possibile”, “capisco”, “perché no”, “l’è fai inscì” o, ancora, “a si cme chiatar”, il “siamo come gli altri” di Zavattini. Chi mai avrebbe potuto dire all’Alberto, il Re del Po, che quell’idea del fiume che scoda, della nave Jolanda come motore del mondo e avamposto fangoso, fosse errata? Nessuno: c’era, anzi c’è una visione del mondo che comincia dall’acqua del fiume nei pressi di Boretto e raccoglie assieme tutta una terra. Una visione che è riconoscibile, perseguibile e allora condivisibile. Che è stata, prima di tutto, un’esperienza di vita – che è una delle poche cose su cui non si può dubitare.
La matàna è insomma cosa per chi vive di fascinazioni: è il patimento di passioni che non si danno per false, per cui tutto è vero, per cui si è in qualche modo sempre creduli, e allora disposti a far nascere un sentire. Essa ammala di esagerazioni, fa narratori: infagotta un’alba per scatenarla sulla rassicurante stabilità della pianura.
«È un volo che non si riesce a vedere, perché non sfrutta ali, eliche o una posizione aerodinamica, cioè non sfrutta l’appoggio dell’aria; ma si ha come un sotto vuoto, o come se uno fosse una bolla di detersivo che si stacca dal peso del corpo. Questo volare o stare sospesi viene probabilmente dalla situazione di essere apolidi e dei confinanti, e di essere per questo contesi e sempre in allarme. Io direi che si è sviluppata una possibilità di stare per aria senza che appaia a nessuno. […] È un volo in sostanza tutto segreto e personale, e questo proprio per motivi strategici, di astuzia lungimirante».3
Piergiorgio
UN DOVE
Sulle stelle noi siamo uomini noi siamo amici noi siamo qua perché abbiamo bisogno di stare vicini noi siamo adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda adda […] facciamo fottuti fuochi urlando al cielo dovremmo farlo tutti i giorni ma non ce la facciamo per la cazzo di vita che facciamo voce lontana una voce lontana.
Adda matàna è un ballo di invocazioni al fiume e di amici intorno al fuoco.
Giovanni Negri ha scritto pagine meravigliose ne “I misteri della Bassa”, Firenze D’Anna
Che bello! Finalmente un’ode alla provincia grigia e bagnata 💕 seguo volentieri, sopratutto sapendo chi scrive